lunedì 12 gennaio 2009

POPOLO DELLA LIBERTA':NON POSSIAMO ACCONTENTARCI


VI SEGNALO QUESTO INTERESSANTE ARTICOLO DI ALESSANDRO CAMPI .E' LA SINTESI DEL DISCORSO CHE HO SENTITO DI RECENTE A FABRIANO.

Non solo organizzazione ma anche riferimenti ideali
Popolo della libertà:non possiamo accontentarci di Alessandro Campi Tutto è pronto per la nascita a fine marzo del Popolo della libertà. Ma restano alcuni dubbi e preoccupazioni, che meritano di essere espressi in forma pubblica, come contributo ad un dibattito che sinora è quasi del tutto mancato.L’auspicio di molti – ovviamente – è che il Pdl possa essere, per quanto banale suoni l’affermazione, un partito “vero”. Non dunque un nuovo – per quanto vincente – cartello elettorale, ma appunto un partito, dotato di una struttura organizzativa stabile e radicata, di regole organizzative e statutarie chiare e definite, di una rete di dirigenti-funzionari selezionata “dal basso” secondo criteri di merito e competenza, di una solida base militante e di una cultura politica omogenea e condivisa.Ma gli auspici da soli non bastano. Si tratta dunque di capire come questo partito funzionerà effettivamente una volta costituito. Quale ruolo avranno in esso iscritti e militanti? In che modo verranno prima formati e poi selezionati i gruppi dirigenti, a partire dal livello locale? Con quali regole e con quali tempi si svolgeranno gli appuntamenti congressuali? Ci sarà, come molti auspicano, una reale democrazia interna che consenta alle varie anime presenti nel partito di confrontarsi e di contarsi? Quali saranno i suoi valori di riferimento, al di là di riferimenti che sanno un po’ troppo di propaganda e di retorica? Un partito che si vuole a vocazione maggioritaria sulla scena politica nazionale sarà a vocazione maggioritaria anche sul piano interno o si prevede che a contare debbano essere sempre la volontà e la parola di uno o di pochissimi?Porsi simili questioni potrà forse apparire un inutile esercizio polemico. Perché ostinarsi a rovinare la festa proprio nel momento in cui tutto sembra marciare per il verso giusto, con il governo che procede a vele gonfie e con l’opposizione smarrita e a pezzi? In realtà, è proprio dalla risposta a tali domande che si può capire l’utilità, per la democrazia italiana, di un’operazione politica certamente ambiziosa e utile, ma al tempo stesso non priva di rischi e difficoltà. Vale la pena “sacrificare” Forza Italia e Alleanza nazionale solo per dare vita ad una nuova sigla elettorale? Il Popolo della libertà, guardando le cose in prospettiva, ha un senso solo se riuscirà a rappresentare il punto d’approdo della “rivoluzione berlusconiana”: il suo obiettivo finale dovrà dunque essere quello di raccoglierne l’eredità rendendola una realtà stabile nel panorama politico nazionale. La nascita del Pdl, in altre parole, acquista un significato politico solo pensando al dopo-Berlusconi: è lo strumento che dovrebbe impedire che il centrodestra, una volta esauritasi la parabola politica del suo naturale leader, di colui che sinora ha permesso a tutte le diverse anime di convivere e di trovare un punto di equilibrio, finisca per dissolversi e per disgregarsi. Ma proprio per questa ragione un simile partito deve poter avere una vita interna effettiva, deve dotarsi di regole e procedure chiare e trasparenti. Il che significa che non potrà essere, come è stata per lunghi anni Forza Italia, un partito interamente modellato dalla volontà di un solo uomo, nel quale non esiste dialettica interna e nel quale gruppi dirigenti e parlamentari vengono semplicemente cooptati dall’alto. Un partito del genere non sopravviverebbe un solo minuto alla scomparsa del suo fondatore. Altro che “oggettivazione del carisma”! Si assisterebbe ad un repentino processo di sbriciolamento delle alleanze e ad una inevitabile spinta controriformistica, che riporterebbe la politica italiana indietro di quindici-venti anni.Naturalmente, le questioni organizzative sono importanti, ma non sono le uniche che contano. Nel nuovo partito conteranno anche i riferimenti ideali, la cultura politica e l’ideologia che esso saprà darsi. Da questo punto di vista, cosa sarà il Popolo della libertà? Una semplice aggregazione di forze e tradizioni politiche, che si limiteranno a convivere l’una accanto all’altra in modo più o meno confittuale, oppure un contenitore plurale e dialettico nel quale le diverse anime troveranno il modo di confrontarsi e di misurarsi alla ricerca di un punto di sintesi politico-culturale che sarà, per definizione, sempre nuovo e diverso, inevitabilmente condizionato dalle sfide provenienti dall’ambiente esterno? Sarà un “partito del leader”, nel quale si può pensare quello che si vuole purché non ci si opponga alla volontà del capo indiscusso, o un “partito per il leader”, nel quale le diverse correnti, anime e sensibilità, esattamente come oggi avviene in tutti i grandi partiti maggioritari nel mondo, finiscono per esprimere, dopo un serio confronto interno e dopo essersi contate, un programma e una figura politica in grado di incarnarlo (che è cosa ovviamente diversa da un capo a vita).Quel che è certo è che una realtà che si pretende nuova e innovativa non può accontentarsi di richiamare le culture o tradizioni politiche dalle quale provengono i suoi principali esponenti e la maggior parte del suoi elettori. Il Pdl, se non vuole appunto risolversi in un cartello elettorale o in una diversa formula d’alleanza politica, non potrà dunque essere un’aggregazione, aggiornata ai tempi nuovi, di ex-democristiani, ex-socialisti, ex-missini, ex-radicali, ex-liberali, persino ex-comunisti, che hanno come unico punto di contatto e convergenza il loro personale legame di fedeltà a Berlusconi. Un simile partito non può nemmeno accontentarsi, come si è fatto per anni, di recitare un blando rosario liberale, pragmatista e modernizzatore, dietro il quale si è spesso nascosto il vuoto delle idee e una certa inclinazione alla spregiudicatezza. Occorrono nuovi orizzonti ideali e normativi, ci vuole il coraggio – da parte di tutte le diverse anime che lo costituiscono – di mettersi culturalmente in discussione, in modo da affrontare con nuovi strumenti e nuove visioni progettuali le grandi sfide che abbiamo dinnanzi.Bisogna, in altre parole, riuscire a fare quello che hanno fatto in Europa le altre realtà di centrodestra che si sono affermate sulla scena negli ultimi anni. Si pensi, per fare degli esempi, al “neogollismo” di Sarkozy, ai new tories guidati da Cameron, ai popolari spagnoli o anche ai “nuovi moderati” svedesi. Caratteristica comune a queste diverse formazioni ed esperienze politiche è stata quella di innovare non solo sul piano tattico (spostandosi verso il centro dello schieramento a caccia di nuovi elettori), ma anche e forse soprattutto su quello delle idee e dei programmi. I conservatori inglesi e scandinavi, ad esempio, hanno abbandonato strada facendo il credo liberista, l’avversione tutta ideologica allo stato sociale e la convinzione che le politiche di taglio fiscale siano una garanzia di crescita economica. Ed hanno dimostrato una crescente sensibilità per le politiche di sostegno al lavoro e all’occupazione, per le politiche di tutela sociale a beneficio delle minoranze svantaggiate e per l’ambientalismo. Invece di un pragmatismo anti-ideologico che rischia di essere fine a se stesso hanno elaborato una complessa trama culturale nella quale risaltano parole quali “virtù”, “responsabilità” e “senso del dovere”. All’individualismo hanno sostituito l’ideale comunitario e il bisogno di una maggiore coesione sociale. L’approccio economicista alla vita sociale è stato sostituito da una crescente attenzione per i fattori morali e culturali che regolano l’ordine civile. Si tratta solo di esempi, ma sufficienti forse a far capire quale sia la strada lungo la quale anche il centrodestra italiano dovrebbe incamminarsi dopo che avrà imboccato la strada dell’unità politica. L’obiettivo del nuovo partito, dunque, non è quello di rendere compatibili, in modo meccanico, tradizioni e identità politico-culturali che a loro volta sono nel frattempo entrate in crisi. Il partito unitario del centrodestra non può limitarsi ad essere un contenitore, per quanto possibile virtuoso, di idee e contenuti ereditati dalla storia e assunti in maniera acritica o peggio dogmatica. La sua ambizione dovrebbe essere piuttosto quella di dare vita – se ne avrà, beninteso, la forza e la capacità – ad una nuova cultura politica, di innovare le idee che ha ricevuto in eredità, accettando la sfida che il cambiamento dei tempi impone alle nostre certezze acquisite. Liberalismo, identità nazionale, popolarismo, conservatorismo, solidarietà sociale sono tutte parole-chiave che meritano di figurare nel bagaglio politico-culturale del centrodestra, ma sono anche termini che hanno bisogno di essere riformulati e declinati in una chiave più moderna e originale, che tenga conto delle profonde trasformazioni che il mondo ha conosciuto negli ultimi quindici-venti anni. Ed è esattamente questo lavoro di riformulazione che è sinora mancato in un centrodestra che si è sin qui accontentato, senza troppo pensare al futuro, di vivere nel fascio di luce creato da Berlusconi.12 gennaio 2009

Nessun commento: