di Maurizio d'Orlando
Pechino lancia l’esperimento di usare lo yuan come valuta di riserva nei rapporti con 8 Paesi.
Gli esportatori cinesi chiedono di fatturare in yuan a non in dollari, perché la moneta Usa perde valore. Ma la Cina deve rivedere il suo modello di sviluppo, troppo ispirato al mercantilismo settecentesco.
Milano (AsiaNews) - Mentre i commenti degli osservatori economici sono concentrati su quanto avviene sul debito pubblico americano e sui mercati finanziari d’oltreoceano, nel mondo dell’informazione sono invece molto più rari i riferimenti a quanto avviene in Asia, quasi che non vi fosse una forte corrispondenza tra i due fenomeni. Ad un forte accumulo di riserve valutarie in Cina, in Giappone ed in tutta l’Asia è, viceversa, logico che corrisponda un livello senza precedenti di emissione di dollari, la valuta di riserva mondiale.
Ma anche l’Asia comprende ormai che l’incremento dell’emissione monetaria diminuisce il valore intrinseco di una valuta. Per questo la Cina sta tentando un possibile e razionale tentativo di sganciamento delle valute asiatiche dal dollaro. È quanto testimoniano alcune recenti notizie d’agenzia[1].
In pratica la Cina sta tentando di rendere convertibile la propria moneta e di darle un ruolo come valuta di riserva. L’esperimento è dapprima limitato alle transazioni tra Hong Kong e le provincie limitrofe. Viene anche proposto per l’uso dello yuan renminbi per 8 Paesi confinanti tra cui la Russia. Con tali paesi sono stati già siglati accordi che prevedono il regolamento dei saldi reciproci in valuta cinese. Forse non è un caso che la notizia sia stata data il giorno di Natale, quando i mercati occidentali sono chiusi e quindi è minore l’impatto sull’informazione e sul dollaro. Inoltre le prime settimane di gennaio sono di solito piuttosto tranquille. Se ne può dedurre che seppure per ora la sperimentazione sia limitata, la Cina si appresta a stabilire la piena convertibilità della propria valuta verso tutte le altre monete. Molti in Cina si sono espressi direttamente o indirettamente in tal senso: ad esempio Wu Xiaoling, ex vice governatrice della banca centrale, e Zhao Xijun, professore di finanza all’università cinese Renmin. Anche l’attuale governatore della banca centrale cinese, Zhou Xiaochuan, all’inizio di dicembre ad Hong Kong aveva dichiarato che, se il valore del dollaro fluttuasse in maniera drastica, il suo impiego come valuta di regolamento (delle transazioni commerciali) causerebbe problemi. È evidente che gli esportatori cinesi, dietro le quinte, chiedono al governo di poter fatturare in yuan e non in dollari, che perdono valore. Altri avvertimenti sono venuti a metà dello scorso dicembre: l’aumento degli acquisti di titoli del Tesoro americano non deve far supporre che gli Usa possano farsi finanziare una soluzione all’attuale crisi finanziaria[2]. Infine lo scorso 1° gennaio un noto economista cinese, Wu Jinglian, ha scritto che la Cina deve cambiare il proprio modello di sviluppo[3], con riferimento al paradigma di una crescita economica trainata dalle esportazioni. Notiamo, per inciso, che anche il Papa, che ovviamente ha soprattutto responsabilità pastorali, ha affermato che il mondo deve cambiare il modello di sviluppo[4] (“Siamo disposti a fare insieme una revisione profonda del modello di sviluppo dominante, per correggerlo in modo concertato e lungimirante?” ha affermato Benedetto XVI).
Verso la piena convertibilità dello yuan
Se, dopo un periodo di rodaggio, la Cina rende convertibile la propria moneta, la conseguenza è che i paesi importatori dovranno dotarsi di riserve di yuan renminbi. Per dotarsene, le banche centrali di tutto il mondo dovranno quindi disinvestire soprattutto da attivi in dollari e titoli del Tesoro americano. L’euro ha infatti un ruolo abbastanza limitato nell’interscambio asiatico. In tal caso si innescherebbe la crisi valutaria originata dalla forte ed artificiale sottovalutazione del tasso di cambio dello yuan di cui abbiamo già scritto in passato[5]. L’intenzione dei vertici cinesi è proprio di correggere tale sottovalutazione, di cui sono perfettamente consapevoli. L’organo del Partito Comunista Cinese, il People’s Daily, sintetizza il pensiero del ministro del commercio estero cinese, Chen Deming, con la discutibile affermazione che la Cina non intende promuovere le esportazioni mediante il deprezzamento della (propria) valuta[6]. Sarebbe stato più corretto affermare che non intende più farlo, visto che è quello che è stato fatto dal 1° gennaio 1994 quando la valuta cinese fu svalutata in termini reali di circa il 55 %. Gli imprenditori occidentali ed in primo luogo americani, attratti da salari al limite della sussistenza e da una manodopera priva di diritti, al limite della schiavitù, hanno finanziato la trasformazione del paese da un’economia stalinista. Da essi sono venuti l'80% degli investimenti. Il tipo di sviluppo industriale intrapreso ha puntato a massimizzare i profitti nel più breve tempo possibile ed ha comportato perciò un forte dispendio di risorse e cioè di manodopera e materie prime. Oggi, quindi, le linee di produzione sono state in gran parte trasferite in Cina. Chen Deming afferma che se America ed Europa non sono in grado di pagarci, continueremo la nostra espansione esportando verso paesi emergenti come India e Brasile.
I problemi del mercantilismo
Con tutto ciò non è che i problemi della Cina siano finiti. Nelle parole di Chen Deming ed in buona parte della dirigenza cinese non vi sono segni che alludano a tentativi di porre rimedio ad un altro squilibrio che è al cuore della crisi finanziaria mondiale. La globalizzazione, cioè l’abbattimento delle tariffe doganali, non può che produrre degli squilibri se alcuni Paesi fanno conto su una crescita trainata dalle esportazioni e proteggono il mercato interno mediante barriere non doganali di varia natura. Ad AsiaNews avevamo già notato nel 2004[7] che questa distorsione nel cambio comporta un forte scompenso nell’uso delle risorse. Con un Pil – Prodotto interno lordo – (a prezzi correnti) nel 2003 pari ad un po’ meno del 4 % di quello mondiale ed il 20 % della popolazione del pianeta, la Cina consumava il 31 % del carbone, il 30 % del minerale di ferro, il 27 % dell'acciaio, il 25 % della allumina, il 40 % del cemento. Nel 2007 la percentuale cinese del consumo mondiale è ancora aumentata: per il carbone era il 41,3 %, più del 50 % per il minerale di ferro, per l’acciaio il 34 %, oltre il 33 % per l’allumina e più del 50 % per il cemento. Nelle parole di Chen Deming si rivela, in altri termini, la persistenza nelle autorità cinesi di una concezione degli scambi internazionali immutata rispetto al mercantilismo europeo del settecento: la ricchezza delle nazioni è data dalla quantità d’oro e d’argento tesaurizzata. Per comprendere quanto possa essere devastante tale concezione basta un esempio. Secondo un “lancio” dell’agenzia Dow Jones Newswire (19 novembre 2008) la banca centrale cinese stava considerando di incrementare le proprie disponibilità d’oro da 600 tonnellate a 4.000[8]. Ai prezzi correnti 3.400 tonnellate d’oro corrispondono ad appena 95 miliardi di dollari a fronte di una disponibilità a fine ottobre di 652,9 miliardi di dollari di titoli del Tesoro americano per un totale di riserve valutarie cinesi superiore ai 2.000 miliardi di dollari. Si tratta di voci del tutto non confermate. Se la Cina intendesse tesaurizzare in oro tale somma il prezzo del metallo giallo schizzerebbe alle stelle, ma il benessere della sua popolazione rurale e dei lavoratori migranti non ne guadagnerebbe molto.
Speriamo non prevalga in Cina tale visione economica mercantilista. Scrive Wu Jinglian sulla rivista cinese “Caijing“: “Senza questa trasformazione [da un modello di crescita trainato dalle esportazioni ad uno basato sul fabbisogno interno][9] la Cina non potrebbe risolvere i problemi causati da un eccessivo consumo di risorse naturali o dall’inquinamento ambientale o dai troppi investimenti [in capitale fisso, impianti e macchinari] ed insufficienti consumi interni o dal problema nel settore finanziario [le banche cinesi].”
Ma anche l’Asia comprende ormai che l’incremento dell’emissione monetaria diminuisce il valore intrinseco di una valuta. Per questo la Cina sta tentando un possibile e razionale tentativo di sganciamento delle valute asiatiche dal dollaro. È quanto testimoniano alcune recenti notizie d’agenzia[1].
In pratica la Cina sta tentando di rendere convertibile la propria moneta e di darle un ruolo come valuta di riserva. L’esperimento è dapprima limitato alle transazioni tra Hong Kong e le provincie limitrofe. Viene anche proposto per l’uso dello yuan renminbi per 8 Paesi confinanti tra cui la Russia. Con tali paesi sono stati già siglati accordi che prevedono il regolamento dei saldi reciproci in valuta cinese. Forse non è un caso che la notizia sia stata data il giorno di Natale, quando i mercati occidentali sono chiusi e quindi è minore l’impatto sull’informazione e sul dollaro. Inoltre le prime settimane di gennaio sono di solito piuttosto tranquille. Se ne può dedurre che seppure per ora la sperimentazione sia limitata, la Cina si appresta a stabilire la piena convertibilità della propria valuta verso tutte le altre monete. Molti in Cina si sono espressi direttamente o indirettamente in tal senso: ad esempio Wu Xiaoling, ex vice governatrice della banca centrale, e Zhao Xijun, professore di finanza all’università cinese Renmin. Anche l’attuale governatore della banca centrale cinese, Zhou Xiaochuan, all’inizio di dicembre ad Hong Kong aveva dichiarato che, se il valore del dollaro fluttuasse in maniera drastica, il suo impiego come valuta di regolamento (delle transazioni commerciali) causerebbe problemi. È evidente che gli esportatori cinesi, dietro le quinte, chiedono al governo di poter fatturare in yuan e non in dollari, che perdono valore. Altri avvertimenti sono venuti a metà dello scorso dicembre: l’aumento degli acquisti di titoli del Tesoro americano non deve far supporre che gli Usa possano farsi finanziare una soluzione all’attuale crisi finanziaria[2]. Infine lo scorso 1° gennaio un noto economista cinese, Wu Jinglian, ha scritto che la Cina deve cambiare il proprio modello di sviluppo[3], con riferimento al paradigma di una crescita economica trainata dalle esportazioni. Notiamo, per inciso, che anche il Papa, che ovviamente ha soprattutto responsabilità pastorali, ha affermato che il mondo deve cambiare il modello di sviluppo[4] (“Siamo disposti a fare insieme una revisione profonda del modello di sviluppo dominante, per correggerlo in modo concertato e lungimirante?” ha affermato Benedetto XVI).
Verso la piena convertibilità dello yuan
Se, dopo un periodo di rodaggio, la Cina rende convertibile la propria moneta, la conseguenza è che i paesi importatori dovranno dotarsi di riserve di yuan renminbi. Per dotarsene, le banche centrali di tutto il mondo dovranno quindi disinvestire soprattutto da attivi in dollari e titoli del Tesoro americano. L’euro ha infatti un ruolo abbastanza limitato nell’interscambio asiatico. In tal caso si innescherebbe la crisi valutaria originata dalla forte ed artificiale sottovalutazione del tasso di cambio dello yuan di cui abbiamo già scritto in passato[5]. L’intenzione dei vertici cinesi è proprio di correggere tale sottovalutazione, di cui sono perfettamente consapevoli. L’organo del Partito Comunista Cinese, il People’s Daily, sintetizza il pensiero del ministro del commercio estero cinese, Chen Deming, con la discutibile affermazione che la Cina non intende promuovere le esportazioni mediante il deprezzamento della (propria) valuta[6]. Sarebbe stato più corretto affermare che non intende più farlo, visto che è quello che è stato fatto dal 1° gennaio 1994 quando la valuta cinese fu svalutata in termini reali di circa il 55 %. Gli imprenditori occidentali ed in primo luogo americani, attratti da salari al limite della sussistenza e da una manodopera priva di diritti, al limite della schiavitù, hanno finanziato la trasformazione del paese da un’economia stalinista. Da essi sono venuti l'80% degli investimenti. Il tipo di sviluppo industriale intrapreso ha puntato a massimizzare i profitti nel più breve tempo possibile ed ha comportato perciò un forte dispendio di risorse e cioè di manodopera e materie prime. Oggi, quindi, le linee di produzione sono state in gran parte trasferite in Cina. Chen Deming afferma che se America ed Europa non sono in grado di pagarci, continueremo la nostra espansione esportando verso paesi emergenti come India e Brasile.
I problemi del mercantilismo
Con tutto ciò non è che i problemi della Cina siano finiti. Nelle parole di Chen Deming ed in buona parte della dirigenza cinese non vi sono segni che alludano a tentativi di porre rimedio ad un altro squilibrio che è al cuore della crisi finanziaria mondiale. La globalizzazione, cioè l’abbattimento delle tariffe doganali, non può che produrre degli squilibri se alcuni Paesi fanno conto su una crescita trainata dalle esportazioni e proteggono il mercato interno mediante barriere non doganali di varia natura. Ad AsiaNews avevamo già notato nel 2004[7] che questa distorsione nel cambio comporta un forte scompenso nell’uso delle risorse. Con un Pil – Prodotto interno lordo – (a prezzi correnti) nel 2003 pari ad un po’ meno del 4 % di quello mondiale ed il 20 % della popolazione del pianeta, la Cina consumava il 31 % del carbone, il 30 % del minerale di ferro, il 27 % dell'acciaio, il 25 % della allumina, il 40 % del cemento. Nel 2007 la percentuale cinese del consumo mondiale è ancora aumentata: per il carbone era il 41,3 %, più del 50 % per il minerale di ferro, per l’acciaio il 34 %, oltre il 33 % per l’allumina e più del 50 % per il cemento. Nelle parole di Chen Deming si rivela, in altri termini, la persistenza nelle autorità cinesi di una concezione degli scambi internazionali immutata rispetto al mercantilismo europeo del settecento: la ricchezza delle nazioni è data dalla quantità d’oro e d’argento tesaurizzata. Per comprendere quanto possa essere devastante tale concezione basta un esempio. Secondo un “lancio” dell’agenzia Dow Jones Newswire (19 novembre 2008) la banca centrale cinese stava considerando di incrementare le proprie disponibilità d’oro da 600 tonnellate a 4.000[8]. Ai prezzi correnti 3.400 tonnellate d’oro corrispondono ad appena 95 miliardi di dollari a fronte di una disponibilità a fine ottobre di 652,9 miliardi di dollari di titoli del Tesoro americano per un totale di riserve valutarie cinesi superiore ai 2.000 miliardi di dollari. Si tratta di voci del tutto non confermate. Se la Cina intendesse tesaurizzare in oro tale somma il prezzo del metallo giallo schizzerebbe alle stelle, ma il benessere della sua popolazione rurale e dei lavoratori migranti non ne guadagnerebbe molto.
Speriamo non prevalga in Cina tale visione economica mercantilista. Scrive Wu Jinglian sulla rivista cinese “Caijing“: “Senza questa trasformazione [da un modello di crescita trainato dalle esportazioni ad uno basato sul fabbisogno interno][9] la Cina non potrebbe risolvere i problemi causati da un eccessivo consumo di risorse naturali o dall’inquinamento ambientale o dai troppi investimenti [in capitale fisso, impianti e macchinari] ed insufficienti consumi interni o dal problema nel settore finanziario [le banche cinesi].”
2 commenti:
CRISI: MOZIONE D'ANNA; ASIL NIDO GRATIS PER CASSINTEGRATI (ANSA) - ANCONA, 3 GEN - Asili nido gratis per cassintegrati, licenziati e precari. Lo chiede una mozione presentata dal consigliere regionale Giancarlo D'Anna (Pdl-An). L'esponente dell'opposizione cita «il particolare momento di crisi economica occupazionale che non risparmia la regione Marche» e «le difficoltà economiche che le famiglie, specie quelle di persone in cassa integrazione o licenziate e precari, si trovano ad affrontare». Il documento impegna la Regione a creare «un fondo di misure anticrisi» per garantire il servizio di asilo nido gratuitamente, oltre ad identificare «altre forme di intervento, in altri settori, a favore delle famiglie in difficoltà».(ANSA).
Complimenti Giancarlo condivido pienamente.
Auguri di buon anno
Bruno
Grazie Bruno. Auguri anche a te e famiglia. Giancarlo
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