martedì 21 ottobre 2008

CINA:DOPO LE LUCI DELLE OLIMPIADI IL BUIO DELLE PRIGIONI ILLEGALI



Nei vicoli della capitale cinese «carceri» segrete camuffate in case normali
Prigioni illegali nel cuore di Pechino
In cella sopravvive la vecchia Cina
Foto con cellulari e diari online: i blogger svelano la realtà delle «black jails» contro la censura del governo

Si chiamano «black jails»: le prigioni illegali nascoste nei vicoli della vecchia Pechino. Finire inghiottiti in queste «tane» significa entrare in una spirale infernale. Nessuno ne parla. Nessuno sa dove siano. Si sperava e si credeva che fossero state cancellate e abbattute. No. Esistono. Sono centri di raccolta e rieducazione per «detenuti speciali», soprattutto i marginalizzati, i dimenticati, gli esclusi dalla modernizzazione.


TELEFONINI E BLOG - Alcuni giovani e coraggiosi blogger cinesi armati di un semplice telefonino, usato come macchina fotografica, hanno alzato il velo. Hanno mandato in rete il calvario di 40 famiglie cinesi maltrattate, arrestate, brutalizzate, segregate in una «black jail» allestita in un ex ostello della gioventù, nella via Taiping, al cui angolo c’è la scuola media numero 62. Chiedevano alla polizia di indagare sul rapimento dei loro figli, vittime del racket delle adozioni o del traffico di organi. Speravano di trovare solidarietà. E’ finita in altro modo: prese, isolate, minacciate. «Voi infangate il nostro Paese» hanno ringhiato gli uomini della sicurezza in borghese.

APPARTAMENTI BLINDATI - Celle camuffate da case normali. Una porta di legno scalchignata, nessuna guardia fuori, una stradina tranquilla. Passi davanti e non puoi sapere che cosa c’è lì dentro. Nemmeno le finestre sbarrate ti insospettiscono. Perché a Pechino e in ogni angolo della Cina era un’abitudine negli anni Settanta e Ottanta blindare gli appartamenti. Sono ancora così: qui vengono rinchiusi e lasciati per settimane o per mesi, a discrezione della «autorità», i poveri che dalle province della Cina arrivano a Pechino per denunciare un sopruso, uno scandalo, una discriminazione di cui si dichiarano vittime. C’è, secondo un testiome, anche un anziano signore che rivendica giustizia per le violenze subite nel corso del decennio della rivoluzione culturale.

REGOLAMENTI E REALTA' - Un regolamento garantisce ai «petitioners» la libertà di portare ai «livelli superiori di autorità» la loro voce, ma nei fatti diventa un inganno. Lo sanno bene quelle 40 famiglie che nei giorni scorsi si erano date appuntamento nella capitale per richiamare l’attenzione sulla storia drammatica e triste dei bambini delle campagne sequestrati da bande di criminali. Hanno tentato di manifestare vicino allo stadio olimpico: pochi cartelloni, con le foto dei piccoli scomparsi. «Nessuno indaga, dateci una mano». La censura ha obbligato i giornali a tacere. La Televisione di Stato si è rifiutata di fare un servizio. La polizia ha caricato le famiglie e le ha trasferite di peso in una delle «prigioni nere», quella del vicolo Taiping. All’apparenza un ostello con tanto di tariffa ufficiale: 150 yuan (circa 15 euro) per una stanza-cella. Naturalmente a carico dei «carcerati». Prevaricazione e provocazione. Non ne avremmo saputo nulla se uno dei detenuti non avesse inviato un Sms - in tempo prima che il cellulare gli venisse requisito - ad alcuni blogger di Pechino che da veri cronisti hanno rotto il silenzio e scoperto la verità ( il racconto e la testimonianze sono pubblicati su Globalvoices). Hanno documentato che le “black jails” non sono state abolite. L’altra faccia di Pechino e della Cina.

Fabio Cavalera

Corriere della Sera

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