martedì 13 luglio 2010

Guareschi, anarchico sentimentale





Guareschi se ne andò la mattina di un giorno balordo. Era un lunedì d’estate rinfrescato da una comune brezza padana. L’Italia istituzionale dibatteva sul Sifar e sul generale De Lorenzo, i giovani stuzzicavano le “masse” e i giornalisti eleggevano la loro miss estiva con tanto di corona. Gioie effimere ed eterni dolori di un Paese moderno. Tutto apparentemente normale dunque tranne che lui, adesso, non c’era più. Lui, Giovannino, aveva vissuto da anarchico della penna anzi da anarchico “sentimentale”, come si andava scrivendo. Anticomunista, monarchico e cristiano più nell’animo che nel cervello.

Era stato un uomo onesto e genuino (ma mai buonista). Una razza in via d’estinzione, preziosa come un canto inedito del Divino poeta. Morì per infarto il 22 luglio del 1968 ad appena sessant’anni, nella sua villetta di Cervia. Malato da anni, fu quella l’ultima occasione in cui il cuore lo tradì.

Aveva cominciato al Corriere emiliano. Umorista per istinto, per sette anni fu redattore-capo del milanese Bertoldo del “commenda” Angelo Rizzoli. Con lui era diventato l’artista che tutti conosciamo. Poi la fine del Fascismo. Tenente d’artiglieria, l’8 settembre fu rinchiuso in un lager tedesco. Non volle farsi “repubblichino” e quando tornò dopo due anni era tutt’ossa. Nel dopoguerra di nuovo con Rizzoli e Giovanni Mosca suo compagno al Bertoldo. Nasce il Candido e nascono le storielle di Peppone e Don Camillo. Giovannino descrive col genio della semplicità le atmosfere della guerra fredda.

Il tema lo conoscono perfino nel Sudafrica dei mondiali di calcio: le zuffe fra un prete e un sindaco falce e martello; sullo sfondo la vita quotidiana di un paesino della Bassa, l’intima religiosissima coscienza di Don Camillo e, come ha scritto Claudio Magris sul Corsera, una «straordinaria carica umana» che nella finzione letteraria finirà per “contaminare” anche il movimento comunista italiano («i suoi valori, la sua schietta vena popolare, che poi si è perduta per tutti e di cui il “popolo” di oggi è una esangue e stupida parodia»).

“Furibondo antimarxista” così però amava definirsi (e furibondo lo era a volte, anche nella vita quotidiana), qualcuno l’ha dimenticato. Sul Candido si era distinto con memorabili vignette e didascalie. Celebri quelle pubblicate nell’imminenza delle elezioni del 1948 durante le quali aveva sposato bon gré mal gré la linea della Dc.

Con la sconfitta del Fronte popolare il più sembrava fatto. La sinistra detestava i modi di questo figlio della “destra” italiana e tutte – o quasi tutte – le sue storiche invenzioni (come i militanti del Pci “trinariciuti”). Facile per uno che avrebbe scritto: «Il comunismo … una volta esaurita la sua iniziale carica di odio contro Dio e contro gli uomini, si comporta come il colossale macigno che, precipitando da una vetta, travolge e sgretola tutto al suo passaggio e poi giace inerte nella valle opprimendo la terra col suo immane peso».

Cittadino di un’Italia sempre più indesiderata e impensierito dallo sposalizio fra Cristo e Marx, Giovannino di Fontanelle aveva presto cambiato rotta. Le “armi” non le aveva mai abbandonate. Si avviò così, dritto per dritto, allo scontro con De Gasperi ma cominciò ad andar male. Nacque una storia circa fantomatiche lettere inviate dal leader Dc agli alleati: in piena guerra civile si chiedeva il bombardamento dell’acquedotto della Capitale. Era un falso (troppe incongruenze lo ha spiegato anche Mario Cervi, sul Giornale, rispondendo a un lettore), scattò la querela e Guareschi venne condannato per diffamazione. Appena quattro anni prima ne aveva subìto un’altra di condanna, stavolta per responsabilità oggettiva. Dal maggio del 1954 farà 400 giorni di carcere a San Francesco di Parma. Un postaccio. Convinto di aver ragione non chiederà né la revisione del processo né la grazia. È l’inizio della fine.

di Marco Iacona - 12/07/2010

Fonte: Linea Quotidiano [scheda fonte]

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