lunedì 11 maggio 2009

La Birmania sta uccidendo Aung San Suu Kyi.


di Gian Micalessin*

E il "mondo libero" tace Si può uccidere un Nobel per la Pace? La Birmania ci prova, nel silenzio indifferente del mondo libero.Da giovedì Aung San Suu Kyi, la paladina della lotta per la liberta e i diritti civili, il nemico più temuto del generale Than Shaw e dalla cricca di tiranni al potere a Rangoon non si alza più, non mangia più, sopravvive aggrappata a una flebo. Venerdì Tin Myo Win, il medico sostituto andato ad assisterla, ha supplicato i generali, ha invocato una deroga alla regola che impone un'unica visita settimanale. Il regime ha detto di no.
Mentre la sfida di Aung San Suu Kyi sfiora il temuto epilogo il mondo assiste apatico e impotente. Mentre da Rangoon l'opposizione sfida la repressione per lanciare l'allarme sulle sue condizioni la comunità internazionale resta lontana, distaccata. Dal Palazzo di Vetro dell'Onu neppure un fiato. Da Washington non un parola. Da Bruxelles solo desolante silenzio. Ibrahim Gambari, l'inviato dell'Onu per la Birmania, brilla per la sua latitanza. Piero Fassino inviato speciale dell'Unione Europea per la Birmania si consuma in un flatus vocis «Si liberi Aung San Suu Kyi dagli arresti domiciliari a cui è costretta da troppi anni, le si consentano cure adeguate». Di azioni concrete e interventi urgenti manco l'ombra. Per non parlare della consueta, complice copertura offerta dal grande protettore cinese in cambio dei diritti di perenne e illimitata prelazione su gas, tek, rubini e ogni altra ricchezza birmana.
Dopo 19 anni di battaglie e 13 di arresti domiciliari la sepolta viva di Rangoon ci sta lasciando. Prostrata dall'isolamento, indebolita dalla detenzione in una fatiscente e umida casa prigione San Suu Kyi si spegne poco a poco. Un anno fa il tifone che seminò morte e distruzione in tutto il paese, scoperchiò e lascio senza elettricità anche quel suo cottage cadente aggrappato alle rive del lago Inya Lake. Un anno dopo la residenza prigione circondata da barricate e posti di blocco è ancora così. Giorno dopo giorno quel reclusorio malsano divora la fibra della 63enne prigioniera, piega il suo corpo, mina un fisico esile e minuto, già provato dallo sciopero della fame di un anno fa. Il regime non attende altro. Da 19 anni l'immagine muta di Aung Aan Suu Kyi basta a gettare nel panico Than Shaw e i suoi generali, a preoccuparli più delle rivolte dei monaci, più delle insurrezioni armate, più dei petulanti richiami al rispetto dei diritti umani dell'Onu e delle altre organizzazioni internazionali. Senza l'impiccio di quel Nobel prigioniero le rivolte sarebbero state schiacciate nel sangue, le proteste spente nel silenzio, i richiami dell'opinione pubblica internazionale ignorati e presto dimenticati. Da 19 anni quel volto e quel sorriso silenziosi sono invece la prova più eloquente della barbarie di un regime perpetuatosi attraverso massacri, persecuzioni di dissidenti e minoranze, partecipazione attiva al narco traffico e ai suoi dividendi. Senza più lei, senza quella eroina della non violenza segregata con la forza delle armi anche le più imponenti rivolte, le più irriverenti proteste sarebbero sussulti inerti, urla afone, lacrime nella pioggia. Senza quella prigioniera silenziosa capace di ridestare un mondo apatico le stragi dell'agosto 88, la ribellione dei monaci del settembre 2007, le atrocità di in regime pronto dopo il tifone dello scorso anno a lasciar morire la propria gente senza soccorsi sarebbero bagatelle senza storia. Senza Aung San Suu Kyi la Birmania sarebbe un buco nero del pianeta, un orrore invisibile e dimenticato, una serra della tirannia abbandonata ai suoi zelanti giardinieri. Se di tanto in tanto ce ne ricordiamo, se ogni tanto alziamo gli occhi distratti e spargiamo due parole d'indignazione è soltanto grazie a lei, a quel fantasma di donna imprigionata per aver inseguito un sogno di libertà. Che il regime voglia liberarsene è comprensibile. Che il mondo lo lasci fare, che nessuno da Washington a Londra, da Roma a Parigi muova un dito non è solo avvilente, ma vergognoso. Contrapponendo legalità e non-violenza a un regime icona di ogni prevaricazione e brutalità San Suu Kyi non sperava in una vittoria facile o veloce. Grazie al proprio sacrificio, grazie alle proprie privazioni sperava di trasmettere al proprio popolo quegli ideali di civiltà appresi da ragazzina nelle scuole e nei college inglesi. Diffondendo quegli ideali sperava di diffondere l'antidoto alla tirannia. Sacrificandosi sperava di richiamare l'attenzione del mondo sulla sua patria disgraziata. S'illudeva. Dopo averla ammirata nell'indifferenza per 19 lunghi anni il mondo "libero" la guarda consumarsi, prepara l'ultimo addio a quell'icona morente di libertà simbolo, oggi, della nostra avvilente, indecente, impotenza.


*Giornalista di politica estera, corrispondente di guerra, esperto di Medio Oriente, autore di documentari e reportage televisivi, scrittore .

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