martedì 23 giugno 2009

Servizi Google bloccati in Cina




La Cina ha sospeso alcuni servizi del motore di ricerca Google, perchè accusato di non contrastare a sufficienza la pornografia. Lo ha annunciato l’agenzia ufficiale Nuova Cina. In particolare Google Cina dovrà bloccare i suoi servizi di ricerca sulla Rete estera.
La decisione arriva dopo che ieri l’ufficio per la repressione della pornografia online aveva convocato i vertici di Google Cina. Nell’occasione, l’agenzia locale incaricata di vigilare sui contenuti «illegali» (Ciirc) ha «fortemente condannato» Google, ordinando al motore di ricerca di «pulire a fondo i suoi siti dai contenuti volgari e pornografici».

Inoltre, l’agenzia ha sostenuto che «il sito di Google Cina non ha istallato i filtri per bloccare la pornografia come prevedono la legge e i regolamenti». In una nota di questa mattina, la filiale cinese della società usa ha assicurato che «prenderà le misure contro i contenuti volgari, in particolare quelli che possono recare danni ai bambini».
Nel gennaio scorso la Cina, che conta il maggior numero di internauti al mondo, ha lanciato una campagna per lottare contro la volgarità e la corruzione morale su Internet. I media ufficiali avevano allora affermato che i portali Baidu e Google erano tra i siti accusati di pubblicare «dei link a una serie di siti pornografici».
Il governo cinese ha poi deciso anche di introdurre l’obbligo di dotare tutti i computer venduti nel paese di un blocco anti-pornografia. Secondo alcune associazioni che difendono i diritti dell’uomo, invece, questo sistema servirebbe piuttosto a bloccare quei siti politicamente sensibili agli occhi del regime. Inoltre, una società informatica Usa, Solid Oak Software, specializzata nel controllo parentale su Internet ha accusato il produttore cinese, Jinhui Computer Sysstem Engineeering, di plagio in merito alla realizzazione del sistema per bloccare sui pc i siti pornografici.
Nella vicenda è intervenuta anche Microsoft, i cui sistemi operativi sono sul 90% dei computer mondiali, invocando la libertà di espressione di fronte alla decisione del governo cinese.


La Stampa

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